sabato 1 febbraio 2014

Il massacro di Katyń


Pubblicato su Archeologia & Cultura del 25 settembre 2011

di Vito Foschi

La località di Katyń è attualmente nota al grande pubblico per l’incidente aereo in cui hanno perso la vita il presidente della Polonia insieme a ministri e parlamentari, ma pochi sanno il motivo per cui il cospicuo gruppo di  politici si recava in tale luogo.
Katyń è una foresta nei pressi di Smolensk, in Russia, scenario di un cruento fatto di sangue: qui all’inizio del 1940 furono uccisi e seppelliti circa 22000 militari polacchi, prigionieri sovietici dopo la spartizione della Polonia fra Germania nazista e Unione Sovietica. La Polonia, fu il classico vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro. I sovietici con il massacro speravano di eliminare in un colpo solo la classe dirigente polacca, la gran parte erano ufficiali della riserva che nella vita erano professionisti, dirigenti, intellettuali, attuando una sorta di pulizia di classe. Ma al di là della crudeltà del massacro, si istituì una squadra di massacratori professionisti addestrata per uccidere le persone con un singolo colpo di pistola in una precisa zona della nuca, quello da raccontare è il velo di oblio che calò sulla tragedia in seguito al ritrovamento delle fosse comuni.
Nel 1941 in seguito all’attacco tedesco all’Unione Sovietica, polacchi e russi non erano più nemici, ma alleati e in questo nuovo quadro il generale Anders cercò di informarsi dei suoi commilitoni prigionieri in Russia, anche nell’ottica di formare un esercito polacco da affiancare agli alleati. Le risposte di Mosca furono evasive, non potendo ammettere il massacro. Nel 1943, i tedeschi, in seguito all’invasione dell’Urss scoprirono le fossi comuni; fino ad allora non si conosceva il destino dei militari polacchi prigionieri in Russia. Da quel momento si tentò di insabbiare tutto.
I tedeschi cercarono di formare una commissione d’inchiesta internazionale, ma gli alleati per non irritare l’alleato sovietico si opposero. Allora i nazisti formarono una commissione come poterono, coinvolgendo la Croce Rossa ed appurarono le colpe dell’Urss. Gli alleati continuarono a negare l’evidenza.
Al di là del fatto contingente di non irritare un alleato, la faccenda si colorì di sfumature ideologiche. Per motivare l’opinione pubblica si era dipinto il nazismo come il male assoluto; cosa sarebbe successo se si fosse scoperto che l’alleato sovietico agiva come né più né meno dei nazisti?
Indubbiamente era necessario mantenere l’alleanza per sconfiggere i tedeschi, ma come era necessaria l’Unione Sovietica per gli Alleati, altrettanto importante erano per i sovietici gli Alleati in particolare per la fornitura di viveri e di armi. Forse un qualche spazio di manovra poteva esserci,  però gli Alleati preferirono tacere.
Il comportamento di Churchill fu dettato da semplice pragmatismo, anche se dopo la guerra non essendo più primo ministro ed iniziata la guerra fredda poteva sicuramente in una delle sue tante conferenze parlarne. Forse il silenzio fu dettato dal voler nascondere un episodio di cui sicuramente non era fiero, mentre merita particolare attenzione il comportamento di Roosevelt.
Il presidente statunitense ebbe un atteggiamento di accondiscendenza verso Stalin, perché immaginava l’Unione Sovietica avviata verso un’evoluzione democratica in ciò influenzato da molti suoi collaboratori di area liberal che nutrivano simpatia per il comunismo. Inoltre, immaginava un dopoguerra bipolare in cui l’egemonia sarebbe stata spartita fra Stati Uniti e Unione Sovietica con il Regno Unito relegato fra i le nazioni di second’ordine. Il massacro di Katyń in questa ottica diventava un incidente di percorso che non influiva sull’apparente traiettoria democratica intrapresa dalla Russia, che nasceva da una rivoluzione come gli USA al contrario degli altri stati europei. Questo abbaglio ideologico finì per convincere gli statunitensi a tacere sul massacro.
Addirittura, ci fu un tentativo da parte dei sovietici, nel processo di Norimberga, di addossarne le colpe ai nazisti, ma di fronte all’evidenza furono costretti a ritirare le accuse. Negli Stati Uniti ci fu un inchiesta del Congresso negli anni ’50, ma il tutto si arenò per motivi di politica internazionale, quando si doveva firmare l’armistizio della guerra di Corea e non era il caso di inasprire gli animi. L’Unione Sovietica ha continuato a negare l’evidenza anche in seguito fino alla svolta di pochi anni fa con Gorbaciov e Eltsin che hanno ammesso la responsabilità sovietiche a distanza di 50 anni.
C’è anche un risvolto italiano, a dir poco disdicevole della faccenda. Della commissione internazionale istituita dai nazisti faceva parte un italiano, il professor Vincenzo Palmieri, direttore dell’istituto di medicina legale dell'Università di Napoli, che non poté che appurare le evidenti responsabilità sovietiche. Nell’immediato dopoguerra fu perseguitato dal Partito Comunista Italiano che agiva, consentitemi l’espressione di sapore giuridico, in nome e per conto dell’Unione Sovietica. Il professore Palmieri veniva contestato a lezione, accusato di essere un nazista e addirittura alcuni colleghi giunsero a chiederne l’allontanamento.

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